Nel desolato paesaggio rurale della Lucania, una comunità di contadini degli anni Cinquanta permane in un tempo indefinito, mentre altrettanti personaggi contemporanei ne abitano le rovine, sopravvivendo disincantati alla fine dei grandi sogni del Novecento. I primi lottano per fondare una civiltà contadina moderna, i secondi affrontano un futuro post rurale, facendo i conti con le lotte perse dalle generazioni precedenti tra i poderi dei borghi della Riforma agraria che costellano le colline sinuose del grano. L’urlo della solitudine passa attraverso il canto, che va a comporre un racconto polifonico di episodi e trame che mettono a confronto le diverse epoche, in un movimento della storia che è innanzitutto di attraversamento geografico di un territorio ormai spopolato, ma ancora fertile. La parola poetica prende corpo anche nei gesti, nelle pratiche millenarie della cultura materiale, nel rapporto spezzato con lo Stato e nel sogno infranto dell’altrove industriale.
Uno si distrae al bivio nasce da un percorso di ricerca che, attraversando il paesaggio rurale del Sud Italia, si interroga sulle sue trasformazioni culturali e sociali nel secondo Novecento. Il film è dedicato a Rocco Scotellaro, simbolo di una giovinezza interrotta e di un mondo contadino in dissoluzione. La narrazione mette in dialogo l’eredità di quella civiltà con il presente spopolato e disilluso della Basilicata contemporanea, emersa alla coscienza collettiva solo dopo la narrazione di Carlo Levi in "Cristo si è fermato a Eboli". Il racconto si apre poi verso l’altrove industriale piemontese, luogo simbolico di approdo e di frattura, dove si è consumata la speranza di un riscatto collettivo. Le rovine della fabbrica torinese diventano così specchio di un’altra giovinezza tradita, in un controcampo visivo e simbolico con i borghi della Riforma agraria. Il film intreccia archivio e riprese contemporanee, in una narrazione che riflette sul legame tra appartenenza, memoria e perdita.